Vincenti non merita un testo vago. Il suo lavoro è pieno di dichiarazioni precise, di necessità espresse. E’ una cartucciera piena di lucide ed eventuali deflagrazioni. Come tutti quelli che hanno qualcosa da dire e un programma preciso non si scaglia contro gli altri per fornire a se stesso il facile pretesto della polemica; agisce non reagisce. Costruisce un panorama ordinato mite e intelligente senza ostentazione e senza la falsa malinconia di provincia; è strano pensare che Vincenti se ne vada presto e male, sopraffatto da allucinazioni alcoliche. Tuttavia la sua morte è un inciampo chimico, una reazione che non ha nulla a che vedere con il suo lavoro. Gli eventi nazionali di questi ultimi due anni, che non ci consegnano elementi per compiangere chi si è frettolosamente cancellato hanno dimostrato che non si uccidono solo gli artisti. Senza quei fatti chi non sa che ‘l’estro’ non esiste, sarebbe autorizzato a liquidare la vicenda artistica di Vincenti con il mito romantico dell’eccesso o peggio a mortificarla con l’eccesso di attenzione ad una biografia che poco somiglia al lavoro che gli corrisponde. Negli anni ’70 l’Italia era una città che si affacciava appena alla modernità, gli schieramenti erano chiari ed elementari, i militari e quelli del posto, quelli del centro e della periferia, quelli con le macchine sopra a 1300 di cilindrata e quelli sotto. Roma era lontana. L’Europa era l’Inghilterra e la Francia, poco la Spagna. L’arte era a cavallo, a volte in barca, ma insomma era un paesaggio. La crisi del petrolio era la domenica in pattini, semplicemente un sollievo per i piccoli imprenditori di provincia che avevano trovato qualcosa da fare per i figli. Se qualcuno avesse detto guardate che Nanni Balestrini come operazione artistica trascrive a Roma sulle pareti di una galleria frasi lette sui muri della Sorbona, gli avrebbero detto drogato. Altrove la crisi economica animava piuttosto una necessità di revisione dello statuto sociale che nell’arte si traduceva nel rifiuto di materiali sofisticati e ortodossi, nell’idea che l’arte fosse il mezzo più efficace per affermare l’aspirazione antiborghese dell’epoca. Era stata sconfitta l’idea degli anni ’60 del multiplo come diffusione capillare di una nuova alfabetizzazione, rifiutata dagli stessi artisti in nome della sacralità dell’intuizione unica, ma si continuava a dire quel lavoro è buono e non quel lavoro è bello a sottolineare la funzione sociale dell’arte. Vincenti non arriva da dilettante, neppure da emulatore. Percepisce lo stato generale dell’arte e quello degli eventi; arriva per un percorso solitario, ma non alienato; non con la buona volontà dell’autodidatta ma con la necessità dell’artista vero. Il suo disagio è evidente, esasperato, ma non anomalo rispetto ad altri. E’ onesto dire che molti negli anni ’70 hanno abbandonato il campo non per una rinuncia “artistica”, per una presunta incomunicabilità con la quale volgarmente è stata liquidata l’inquietudine di una intera generazione di artisti, ma per un malessere storico. Gli anni ’60, i più ottimisti dall’Unità d’Italia fino allo scorso decennio così ingloriosamente concluso, seppure avevano migliorato la vita quotidiana, grazie soprattutto allo sviluppo della robotica casalinga, non avevano sprovincializzato l’Italia, né l’avevano rimessa in corsa per un allineamento con le esperienze internazionali. Un fallimento che produsse nel decennio che segni, incalzato da una crisi economica fra le più gravi della storia mondiale, un clima che ricordava, per spaesamento, quello dell’ultimo dopoguerra. Da qui nasceva, come in ogni periodo di crisi, la necessità del ritorno alle proprie origini, in questo caso non storiche ma biologiche, un recupero dello stato naturale che precede la stanzializzazione, l’eccedenza delle derrate alimentari e la nascita di una società di ‘specialisti. Vincenti sente la necessità di ordinare, ha una visione lucida dello spazio. I collages, la parte più innovativa della sua produzione che ogni tanto si affaccia ad un lavoro ad olio che lascia indifferenti, sono pieni di frammenti frutto di una raccolta di cosciente promeneur – quella di un passeggiatore instancabile e senza meta definitiva – è l’immagine che aderisce perfettamente a questo artista. Vincenti artisticamente appartiene più agli anni 60, quando compare ancora giovanissimo il suo precoce attaccamento al linguaggio per immagini, che ai ’70. Divide lo spazio in griglie bilanciate, ed è il caso dei collages di questa mostra tutti realizzati fra la fine degli anni 60 inizio anni 70, generalmente tripartiti sia verticalmente, che orizzontalmente. Nel primo dei casi la diùsione è grafica. nel secondo concettuale, accordato su tre soggetti incolonnati: l’uomo in divisa, la donna nuda – non pensiero erotico ma dogma della femminilità – e infine foglie, rami o in ogni caso citazioni al mondo naturale. La necessità di classificare, ordinare, di chiarire a se stessi anche attraverso l’iterazione, che insieme al frammento è il lavoro di Vincenti, appartiene ad artisti diversi fra loro che hanno fatto la storia degli anni ’60, da Piero Manzoni a Gianni Colombo. Anche quei piccoli pezzi di carta, di legno, stagnole di sigarette se nel loro francescanesimo tecnologico fanno pensare alle epifanie dell’arte povera, sono in realtà più vicine alla ripetizione per flash televisivi e fotografici dell’arte pop. Sono bombardamenti di quotidiano misurati in superfici invece che in secondi. Al decennio successivo, che accoglie la sua morte avvenuta nel 1978, appartiene piuttosto il suo malessere, la necessità di fiancheggiare, per avere il distacco che ne consente la lettura, le coordinate del “prima”, di quello che lo ha preceduto. Non è un caso che con consapevolezza Vincenti inizia a schedare i suoi lavori in un repertorio con numeri progressivi fin dall’inizio, tracciando con chiarezza un percorso: un ordine che sfugge al pericolo di essere adolescenziale autocompiacimento visto che, ormai definitivamente adulto, continuerà ad organizzare le sue opere, lasciando alla fine della sua vita quattro repertori e circa 40.000 opere documentate. Dai ‘60 dunque l’ordine, dai ’70 l’origine. Questa natura anfibia del suo lavoro è ribadita dall’iconografia di questi collages che dimostrano la fedeltà ad una monomania tematica: l’uomo in divisa da una parte e dall’altra stralci di foto di rotocalchi con cosce di donna e capelli; ancora più in là la colonna con le foglie e sagome di piccoli rami. Si teme l’antitesi tra i due termini.

Fino a che non si scopre che la divisa è quella della banda.